Carissimi lettori, carissime lettrici, andiamo con questo primo articolo ad inaugurare un’altra nuova rubrica. Anche questa, di tanto in tanto, avrà una sua continuità sul blog, come già alcune altre. Tratteremo, nello specifico, di videogiochi che abbiano una certa vena realistica e simulativa e, quindi, un certo legame con quel che è ArmA.
Introduzione alla rubrica
Ciò che via via andrò a costruire con questa serie di articoli non sarà una storia esauriente dei videogiochi realistici a carattere militare. Non sarei la persona adatta a scrivere qualche cosa di questo genere: non ho certo giocato un numero adeguato di titoli di questo tipo e, del resto, ho cominciato a giocare attorno al 2004, assai tardi per essere vintage. Tanti fra i titoli che proporrò, probabilmente, oggi possono essere ben considerati vintage, ma è il tempo che passa.
Posso, però, delineare in questa serie il mio percorso di giocatore alla ricerca di esperienze simulative e tattiche sempre maggiori. Se sono approdato ad ArmA, infatti, ed al Milsim (e le due cose non coincidono necessariamente) lo devo anche all’esperienza che i titoli di cui andrò via via a parlare mi hanno regalato.
L’ordine di questa serie sarà vagamente cronologico. Dico vagamente perché più che ordinare i titoli, e quindi le puntate, in base alla data di rilascio degli stessi considererò il periodo in cui li ho giocati.
Eccoci dunque pronti ad iniziare con un titolo, anzi una serie di tre titoli, che dovevo necessariamente considerare all’inizio della rubrica: parliamo di Brothers in Arms. Prima, però, permettetemi di dare un po’ di contesto.
Un nome, un’epoca
Chi conosce la serie, sarà già preso da inevitabile nostalgia. Quanto a quelli che non la conoscono, se per prima cosa io dicessi che si tratta di una serie di tre titoli ambientati nella Seconda Guerra Mondiale, tanti probabilmente noteranno la somiglianza del nome con Band of Brothers. Quest’ultima è una serie televisiva prodotta dalla HBO e diretta nientemeno da Steven Spielberg e Tom Hanks, un gioiello che non si può non raccomandare a tutti gli appassionati del genere. Spielberg ed Hanks si erano già visti, nel 1998, in Salvate il soldato Ryan, altra pietra miliare per quanto riguarda i film di guerra.
Non è un caso la datazione del colossal di Spielberg e della miniserie. Nei primi anni Duemila, la Seconda Guerra Mondiale era un po’ ovunque. Sul grande e piccolo schermo, anzitutto, ma anche sugli schermi dei PC e delle console che diventavano sempre più diffuse. Ecco dunque, sulla soglia del nuovo millennio, Medal of Honor, serie rimasta fedelissima al secondo conflitto mondiale fino al 2010; ecco poi Call of Duty, altro classico nato rappresentando tale guerra, riproposta dalla serie, dopo tanto divagare, solo di recente e con risultati, diciamo pure, un po’ comici. Abbiamo citato i due immancabili colossi, e potremmo continuare.
Giochi di guerra, ma quale guerra?
Tutti questi videogiochi ci calavano nella Seconda Guerra Mondiale. Ma in che tipo di guerra? Benché tutt’altro che user friendly come tanti titoli d’oggi e pieni di competizione, i titoli più famosi sono fautori di quel che potremo chiamare realismo hollywodiano. Veniamo catapultati nell’azione e tutto serve a far scena, pur riuscendoci dannatamente bene. Siamo di fronte a sparatutto nel vero senso del termine e dobbiamo darci da fare. Si tratta di vincere la guerra da soli, noi, il joystick e qualche kit medico ben gestito.
Gli altri membri della squadra ci sono quasi solo per fare numero nelle scene di massa. Qualcuno muore eroicamente in drammatiche scene ben costruite, e questo è la regola per i personaggi importanti, solitamente un paio. I più o sono immortali o se muoiono tanto meglio, così ci lasciano le munizioni, davvero necessarie per chi voglia sterminare l’esercito tedesco da sé.
È pressappoco in un mercato come questo che, nel 2004, nel sessantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, fa capolino il primo titolo della serie: Brothers in Arms: Road to Hill 30. Il titolo è sviluppato dalla Gearbox Software, altrimenti nota per Duke Nukem, e distribuito da Ubisoft.
Brothers in Arms: Road to Hill 30, ovvero: come iniziare col botto
Il primo Brothers in Arms, che d’ora in poi abbrevieremo in BiA, si distingue subito nella sua attenta ricerca al realismo storico. Questo avviene in vari livelli. Non si tratta solo di far sì che il mitra Thompson sia della forma giusta o che il caricatore dell’M1 Garand abbia la capienza corretta. BiA cerca di simulare e di farci familiarizzare con ciò che in guerra conta più di ogni cosa: la tattica e la nostra squadra.
Cosa rende grande un soldato, il suo cervello o il suo cuore? Questa problematica domanda che ricorre varie volte nei tre capitoli della serie illustra perfettamente due elementi fondamentali che la contraddistinguono. Il gioco non cerca di renderci guerrieri caciaroni e tuttofare, ma soldati. Soldati che hanno un cervello e un cuore, l’uno volto alla tattica, l’altro rivolto ai propri cari e, dunque, anche ai propri compagni di squadra.
La squadra non è un banale riempitivo per le scene d’azione, ma è la chiave per la vittoria. Ecco quindi che non siamo più dei subordinati con l’ordine di vincere la guerra da soli, ma impersoniamo un caposquadra, e sta a noi guidare i nostri.
I nostri compagni non sono degli sconosciuti qualsiasi. Guidiamo una piccola squadra e, man mano, scopriamo varie cose sulla biografia di ciascun membro. Tanti altri dettagli sono rivelati nel manuale di gioco: i bei tempi in cui li davano ancora!
Per la precisione, interpretiamo il sergente Matthew “Matt” Baker, un introverso giovane del Missouri arruolatosi fra i paracadutisti della 101ma Divisione Aviotrasportata. Baker fa parte del 502mo Reggimento Paracadutisti, lo stesso che si vede in Band of Brothers. Siamo alle porte di Giugno del 1944. Gli Alleati devono aprire un secondo fronte in Europa e lo faranno con quella che ad oggi è ancora la più vasta invasione aeronavale della storia, lo sbarco in Normandia, il celebre D-Day.
Il gioco ci tiene però lontani dalle famigerate spiagge di Utah ed Omaha di hollywoodiana memoria. La 101ma Divisione Aviotrasportata, così come la 82ma, dovrà andare incontro al proprio appuntamento col destino paracadutandosi sulla Normandia poche ore prima degli sbarchi. I paracadutisti dovranno poi appoggiare le operazioni di consolidamento nell’entroterra. In particolare, dovranno assistere nella cattura di Carentan, la cittadina francese che si trova al crocevia fra le due spiagge dove sbarcheranno le truppe americane.
Il titolo si apre proprio con un prologo ambientato sulla Hill 30, la Collina 30 che dà il nome al gioco. Si tratta di un’altura poco fuori Carentan dove i soldati americani respinsero in un sanguinosissimo scontro il contrattacco tedesco. Baker è lì da otto giorni, è ancora vivo, a differenza di alcuni dei suoi. Lo shock causato dall’esplosione di un colpo di mortaio ci riporta all’inizio di tutto. Siamo sull’aereo da cui dovremo saltare sulla Normandia. I tredici di Baker, numero ahimè sfortunato, ci sono tutti, e lui non si sente pronto a comandarli, ma deve farlo.
I compagni di squadra sono la sua arma migliore e la sua famiglia. Del resto, come si dice nel gioco, ogni soldato ha due famiglie: quella che lo aspetta a casa e quella con cui aspetta di tornare a casa.
Comandare, non essere comandati
Come accennavo, il gioco dà tantissima importanza al concetto di squadra, tanto che il comando di questa è affidato a noi. Per comandare i nostri abbiamo a disposizione un semplice sistema contestuale. Tenendo premuto l’apposito tasto e puntando il terreno possiamo dare un ordine di movimento, che si conferma rilasciando il tasto. Se invece puntiamo una squadra nemica, possiamo dare un ordine di attacco.
Nel gioco comandiamo fino ad un massimo di due squadre contemporaneamente. Una è la squadra di fuoco, l’altra è la squadra d’assalto. In alcune missioni una delle due squadre può essere sostituita da un carro armato. Ma attenzione: il carro armato è a nostra disposizione, ma non siamo noi a guidarlo e tanto meno a fare da cannoniere. Non si tratta di Call of Duty dove i livelli sul carro non mancano mai. Il mezzo è una risorsa che dobbiamo saper sfruttare attentamente, e non è lì a far scena.
Fuoco e aggiramento, questi sconosciuti
Abbiamo detto che negli sparatutto la guerra è simulata al livello basilare riassunto in spara a tutto quello che ti trovi contro. BiA cambia le carte in tavola. Gli sviluppatori di Gearbox hanno richiesto la consulenza del colonnello John Antal, un ex Ranger diplomato presso la celebre Accademia militare di West Point, per cercare di simulare le vere tattiche usate negli scontri fra squadre durante il conflitto.
Non possiamo più aprirci la strada a suon di piombo. I proiettili nemici fanno un gran male sia a noi che ai nostri compagni di squadra, che hanno una barra della salute e, sfiga nera, non c’è nessun kit medico in giro che possa aiutarci. Per vincere uno scontro dobbiamo usare la tattica.
Anzitutto, una volta trovato il nemico, occorre bloccarlo. Per far questo ci serve il fuoco di soppressione, che adesso non è più solo una frase strillata dai nostri alla quale i tedeschi rispondono puntualmente con l’eloquente GRANATEEEEN! Quando avvistiamo una squadra ostile, di default il gioco mostra al di sopra di questa un indicatore inizialmente rosso. Quest’indicatore è un piccolo grafico a torta che si riempie in grigio man mano che il nemico è soppresso. Magari i nemici sono riparati dietro ad un muretto, e quindi noi ordiniamo ad una squadra di sparare contro il muretto stesso. Non riusciranno a centrare il nemico che è ben nascosto, ma se il fuoco è intenso i tedeschi non oseranno alzare la testa.
Per i tempi era un cambiamento epocale: non si sparava più per uccidere a colpo sicuro orde di nemici. I celeberrimi crucchi non uscivano più allo scoperto per farsi massacrare allegramente dopo aver urlato il GRANATEEEN di rito. C’era invece da sfruttare i nostri compagni per tenere il nemico bloccato e preparare un aggiramento.
Soppressi i tedeschi, infatti, per eliminarli non possiamo optare per cariche frontali. Dobbiamo invece colpire dal fianco, sfruttando le coperture in modo appropriato. Il gioco per aiutarci nella pianificazione ci mette a disposizione la visuale tattica, richiamabile con un tasto. Si tratta di una modalità in cui il gioco (anche troppo comodamente) è messo in pausa e possiamo vedere dall’alto il terreno che ci circonda. Possiamo anche scorrere fra le unità che abbiamo avvistato nell’area e valutare il terreno, sempre dall’alto, a partire dalla loro posizione. Questo ci permette di cogliere opportunità di aggiramento e capire dove spostare la squadra d’assalto mentre la squadra di fuoco continua la soppressione.
Questa è la tattica che fa da fulcro al primo gioco ed all’intera serie. Tra fuoco e aggiramento si svolge la vicenda di Baker e della sua squadra che culmina nella battaglia finale sulla Collina 30. Il primo titolo della serie è abbastanza parco di cutscene. La maggior parte delle informazioni le traiamo dai monologhi che Baker pronuncia ad inizio missione, mentre è mostrato uno sfondo nero col nome della missione sottolineato in rosso. Il riferimento a Band of Brothers è ovvio, ma come avrebbero potuto fare altrimenti?
Una Normandia che non è di cartone
La cura nel realismo e nell’autenticità ha spinto gli sviluppatori a porre grande attenzione allo scenario. Anche grazie all’aiuto di Antal, i level designers hanno fatto in modo di costruire missioni tutte ispirate a veri scontri avvenuti in Normandia e ricostruiti grazie ai rapporti operativi. Non si tratta più di generici scontri in città o in campagna dove lo scenario tutt’al più serve a impreziosire qualche cutscene.
Gli sviluppatori hanno inoltre cercato di riprodurre nel gioco vere località della Normandia esattamente come apparivano nel 1944. Che si tratti del paesino di Foucarville, della chiesa di Carentan o delle posizioni sulla Collina 30, ogni luogo è riprodotto con grande fedeltà. Gli edifici sono modellati basandosi su quelli reali, ed level designers si sono potuti avvalere di un gran numero di fotografie, aeree e non, dell’epoca, nonché di un vero sopralluogo effettuato da alcuni di loro in Normandia.
Ecco quindi che anche lo scenario non è più un riempitivo o uno sfondo, ma qualcosa che ci parla. Nella costante ricerca di coperture e di opportunità per aggirare il nemico possiamo, di tanto in tanto, apprezzare il paesaggio francese riprodotto con tanta cura.
Quando dal gioco s’impara
Il primo BiA non volle soltanto offrire una storia che nulla ha da invidiare ad una trama cinematografica e uno stile di gioco studiato ed innovativo. Anche il sistema di difficoltà di gioco selezionabile, caratteristica tipica per i tempi, assunse un nuovo significato. Il gioco presenta quattro livelli di difficoltà: gli usuali Facile, Normale, Difficile e poi la modalità Reale. Quest’ultima è, nella versione italiana, una traduzione forse un po’ infelice, perché nell’originale è chiamata Authentic. Sbloccabile solo completando tutto il gioco in modalità Difficile, la difficoltà Reale disattiva l’indicatore di soppressione visibile ed elimina il sistema dei checkpoints. Se si viene uccisi, bisogna ricominciare tutta la missione daccapo. Allettante, vero?
Completare una missione ad una certa difficoltà, però, non serve solo a soddisfare il proprio ego. Dal menù di gioco, infatti, possiamo accedere ad una sezione denominata Extra. Qui, per ogni livello, troviamo dei contenuti aggiuntivi, sbloccabili completando ogni livello ad una certa difficoltà. Questi contenuti sono di vario tipo: da approfondimenti su alcune armi, unità o veicoli che incontriamo nel gioco a piccole spiegazioni riguardanti la vera operazione cui il livello è ispirato. Spesso sono presentate foto storiche o foto scattate nei musei, oppure scatti della Normandia come appariva agli sviluppatori confrontata con quella del materiale d’archivio.
Diciamo che, sebbene in scala sicuramente più ridotta, i ragazzi di Gearbox hanno tentato qualcosa che, in un genere totalmente diverso, tentò poco dopo anche Assassin’s Creed. Riprodurre un’epoca riproducendo fedelmente lo scenario e le opportunità in esso presenti, nonché il modo di pensarle e sfruttarle.
Brothers in Arms: Earned in Blood, ovvero: squadra che vince non si cambia
Finire un gioco dalla trama ben fatta lascia sempre un senso di vuoto, com’è coi libri. Si vorrebbe continuare e scoprire cosa succede dopo. Il finale del primo BiA, che ovviamente non spoilererò, dichiarava spudoratamente che un seguito ci sarebbe stato, e questo giunse nel 2005.
Earned in Blood, o EiB, ci riporta in Normandia per riprendere da dove avevamo lasciato…ma non così facilmente. Non veniamo più calati nei panni di Baker, ma interpretiamo il caporale Joe “Red” Hartsock. Si tratta di un campagnolo del Wyoming dai capelli rossi (di qui il soprannome di Red) che conosciamo già dal primo BiA, dove fa parte della nostra squadra di fuoco. Tutta la narrazione ricomincia dalla sua prospettiva, ed è svolta sotto forma di intervista che Red rilascia a Samuel Marshall. Si tratta di un ufficiale americano realmente esistito che cercava di ricostruire come fosse andata una determinata operazione militare intervistando a distanza anche di poche ore coloro che vi avevano partecipato. Gli accurati rapporti di Marshall, come mostrato negli Extra del titolo, hanno molto aiutato anche gli sviluppatori.
Ecco quindi che, nelle stesse ore, viviamo eventi diversi, perché, ad esempio, Baker ed Hartsock non atterrano insieme ma, come tanti, finiscono dispersi e si rivedono dopo giorni. Il bello, ovviamente, è che dopo alcune missioni è ripresa la scena finale del primo BiA e la guerra in Normandia continua, sia pure con una nuova prospettiva. Red, che già in quanto caporale può guidare alcuni uomini nelle prime missioni, da un certo punto in poi è promosso sergente, e può guidarne di più in scontri sempre più duri.
La filosofia resta saldamente la stessa del primo capitolo, ma è ovviamente rinnovata l’attenzione ai nuovi scenari, sempre ricostruiti fedelmente. EiB pone più attenzione anche sul combattimento urbano, pur non rinunciando agli scontri nelle campagne francesi, e introduce un paio di nuove armi ed unità.
Road to Hill 30 e Earned in Blood condividono gli stessi pregi e gli stessi difetti, e soprattutto il difetto maggiore: finiscono.
Brothers in Arms: Hell’s Highway, ovvero: un canto del cigno?
Le avventure di Baker e di Red seppero sfidare e mettere alla prova tanti appassionati e riscossero un discreto successo. Sfruttando il motore di gioco, gli sviluppatori della Gearbox produssero persino un documentario insieme ad History Channel sugli scontri in Normandia. Molte scene erano appositamente renderizzate in nuovi scenari del gioco. Non potete capire che rosicata quando beccai il documentario in televisione: pensavo ci fossero missioni in più che non avevo sbloccato!
La reale storia degli eventi ed anche la trama di EiB mostravano chiaramente che le avventure in Normandia erano finite. Ma sempre la storia ci dice che i paracadutisti della 101ma Divisione Aviotrasportata tornarono in azione nel Settembre del 1944 per l’operazione Market Garden.
Lo sperato seguito giunse nel 2008 e prese il nome di Brothers in Arms: Hell’s Highway. L’autostrada dell’Inferno fu il soprannome dato ad un lungo tratto di strada in Olanda lungo cui si dovevano spostare le truppe alleate. Il piano dietro all’operazione Market Garden, elaborato dal generale inglese Montgomery, prevedeva appunto di liberare l’Olanda occupata per sorprendere i tedeschi. L’idea era di penetrare in Germania e chiudere la guerra entro Natale 1944. L’operazione però fu un fallimento: i fondamentali ponti della città di Arnhem non vennero tenuti e la Germania raccolse la sua ultima rilevante vittoria. Le numerose colonne alleate dovettero affrontare durissimi scontri con le forze corazzate tedesche, e la via che doveva portare rapidamente alla vittoria divenne un inferno.
Questo nuovo inferno lo vivremo di nuovo con gli occhi di Baker, che fa il suo ritorno. Ora promosso al grado di Staff Sergeant, Baker dovrà muoversi fra i verdeggianti polder olandesi e le città semidistrutte, sempre in testa ai suoi.
I primi due capitoli giravano sul venerando Unreal Engine 2. Il terzo sfoderava il nuovissimo, per l’epoca, Unreal Engine 3. La grafica fu totalmente rinnovata e venne introdotto, fra l’altro, un sistema dinamico di coperture, che permette di sporgersi e muoversi in copertura meglio. Questo è anche il capitolo indubbiamente più cinematografico. Anche grazie al nuovo motore di gioco, abbondano ora le cutscene. In queste, la storia di Baker è esaminata a fondo, con tanti flashback in Normandia, però non giocabili. Ci sono anche cose un po’ meno realistiche, tipo action camera per certi headshots o uccisioni cruente; va però detto che si possono disattivare dal menù delle opzioni a beneficio del realismo.
Si scava molto nell’interiorità del nostro sergente, che ha visto morire tanti amici e soffre di stress postraumatico. Conosce, inoltre, un terribile segreto sulla morte di due membri della squadra caduti in Normandia. Riemerge poi il filone della pistola maledetta. Si tratta della pistola Colt 1911 che Baker ha avuto in dono dal padre, anch’egli militare. L’arma è cromata e sopra c’è inciso To Matthew – Brothers in Arms. Il problema è che chiunque la tocchi sembra sia destinato a morire…
Nel complesso l’ultimo capitolo è sicuramente meno hardcore dei due predecessori. I checkpoints sono più benigni e non c’è modo di abolirli completamente. Non esiste più la barra della salute, ma c’è un indicatore di minaccia: lo schermo si fa rosso quando siamo troppo esposti al fuoco nemico e ci stanno per colpire. Molti ci vedono un malcelato sistema di salute autorigenerante anche se, di nuovo, l’indicatore si può disattivare. Le meccaniche di base della serie restano immutate. Viene anche reso possibile comandare tre squadre contemporaneamente. La terza squadra è di supporto ed è armata, in base alla missione, di mitragliatrice Browning o di lanciarazzi Bazooka. Tutte e due le armi, ma l’ultima soprattutto, tornano particolarmente utili ora che è possibile distruggere alcune coperture (come sacchi di sabbia o steccati).
La maledetta neve che ci è andata di traverso
Hell’s Highway si chiude con un magistrale discorso di Baker alla sua squadra. Il giovane timido e romantico che aveva paura di dare ordini e faceva solo monologhi è molto cambiato, in meglio e in peggio, dalla Normandia. Anche qui non farò spoiler, ma basti sapere che ad un certo punto, nel finale, si menziona la neve.
Non si tratta di un banale fenomeno atmosferico. Chi, come me a quel punto, era ormai quasi fanatico della serie in quella menzione della neve vedeva solo una cosa: la promessa di un seguito.
La storia ci dice infatti che dopo la fallimentare operazione Market Garden i Tedeschi, colta l’ultima vittoria, tentarono un audace contrattacco in Belgio, nelle Ardenne, nell’inverno tra il 1944 e il 1945. L’equazione è chiara: neve = Ardenne.
Purtroppo, tredici anni dopo, un Brothers in Arms: Bastogne è ancora poco più di un miraggio. Tutti i fan della serie vorrebbero seguire le orme insanguinate di Baker in qualche foresta belga ma, per ora, non si sa nulla, e chissà se mai si saprà.
Vero è che all’E3 del 2011, la Gearbox presentò il concept per un Brothers in Arms: Furious 4. Si sarebbe trattato di una sorta di resa videoludica di Bastardi senza gloria, quindi uno sparatutto che nulla avrebbe avuto a che vedere con la serie di cui a forza prendeva il nome. Il numero di bestemmie dei fan, molti dei quali evidentemente concentrati in Veneto, fu però così elevato che alla fine il progetto venne cancellato.
Le bestemmie di allora sono ormai convertite in speranza per il seguito. Nel Giugno del 2020 ci furono vari rumors su Reddit riguardo a un possibile titolo in sviluppo. Ufficialmente, purtroppo, non si sa nulla. Ma io, che sono cresciuto anche un po’ sentendo il sergente Baker ordinare il fuoco di soppressione, spero di essere qui a parlarvene molto presto.